Più ancora, l'eco letteraria di uno Steinbeck. Poiché, come dice il titolo, si tratta della descrizione delle fatiche di una famiglia di coltivatori di riso: con un'attenzione ai dettagli apparentemente più insignificanti della fatica quotidiana, il legame che è al tempo stesso minacciosa dipendenza dalla natura, la presenza vivissima degli elementi naturali (l'acqua che sta dappertutto, in cielo come in terra; l'invasione delle cavallette), il succedersi degli avvenimenti del melodramma famigliare (le piccole gioie, i giochi dei bambini, gli amori fugaci, la malattia, la morte, la partenza di una figlia), l'abbozzo di una struttura sociale (l'assistenza della comunità agricola, l'eco delle città che stanno attorno, le cure ospedaliere lontane).

È proprio questa parte, splendidamente ritmata su un quotidiano dal quale è stato rimosso ogni elemento di facile folclore, la più sensibile e riuscita del film; tutta impregnata di quei ritmi solenni ma anche umili che gli orientali sanno conferire a questo genere di atmosfere. Ma Rithy Panh ha in serbo ancora qualche ambizione: ed è quando vuole rivolgersi al mito, sconfinare nel fantastico e nell'onirico: qui il film perde quell'unità, quell'armonia ciclica che lo caratterizzava.

Troppa carne sul fuoco degli entusiasmi del giovane cineasta cambogiano: anche se - ci si può scommettere - è nata una stella.